Il ruolo della vitamina D in alcune importanti patologie come i tumori, le malattie cardiovascolari, il diabete ed i disturbi del sistema immunitario: è tempo di cambiare prospettiva?

La vitamina D favorisce l’assorbimento di calcio e fosforo nell’intestino, il riassorbimento del calcio nei tubuli renali, stimola gli osteoblasti a produrre  più fosfatasi alcalina e osteocalcina e meno collagene (favorendo così la formazione dell’osso), inibisce la secrezione del paratormone. Oltre a queste funzioni squisitamente legate all’omeostasi del calcio, la vitamina D svolge importanti funzioni immunomodulatorie, antiangiogenetiche ed antiproliverative.
Recenti studi epidemiologici hanno individuato un’associazione tra carenza di vitamina D ed alcune patologie come i tumori, le malattie cardiovascolari, il diabete ed alcuni difetti del sistema immunitario (allergie, asma, sclerosi multipla). Diversi autori suggeriscono una supplementazione di vitamina D ed una fortificazione di alcuni alimenti come strategia per contrastare i livelli carenti rilevati in alcune aree del pianeta ed in alcune sottopopolazioni specifiche; sono sufficienti, i dati di cui disponiamo, per avviare un ripensamento del reale ruolo della vitamina D e suggerire una strategia di supplementazione/fortificazione? Per rispondere a questa domanda vengono qui presi in considerazione i dati
derivanti dai maggiori studi osservazionali e meta-analisi relativi  all’impatto della carenza di vitamina D sul rischio di osteoporosi, caduta e frattura nell’anziano, ipertensione e rischio cardiovascolare, mortalità complessiva, diabete mellito, cancro, allergia ed asma, sclerosi multipla, infezioni e disturbi psichiatrici.

Notizie generali sulla vitamina D

I due principali precursori della vitamina D sono il colecalciferolo (vitamina D3) e l’ergocalciferolo (vitamina D2). L’ergocalciferolo viene introdotto con l’alimentazione, mentre la principale fonte di colecalciferolo è rappresentata dalla produzione endogena. La vitamina D3 si forma nella pelle dopo esposizione a raggi ultravioletti B del 7-deidrocolesterolo che viene trasformato in previtamina D3 che viene a sua volta convertita in vitamina D3 in un processo dipendente dal calore. Un eccesso di raggi ultravioletti trasforma la previtamina D3 in due metaboliti biologicamente inattivi (il tachisterolo ed il lumisterolo). La vitamina D2 si trova in alcuni alimenti.

Entrambi i precursori vengono convertiti in 25-idrossivitamina D [25(OH)D] nel fegato. Questa è la principale forma di vitamina D circolante, ed è quella utilizzata per il dosaggio ematico della vitamina D (valori di carenza sono quelli inferiori a 10 ng/ml, di insufficienza compresi tra 10 e 30 ng/ml, ottimali superiori a 30 ng/ml); a livello renale, infine, la 25-idrossivitamina D subisce una idrossilazione aggiuntiva e viene trasformata in 1,25 idrossivitamina D [1,25(OH)2D], o calcitriolo, che è la forma biologicamente attiva della vitamina. La vitamina D si lega ad un recettore
specifico presente su numerosi tipi cellulari e grazie a questo legame svolge le sue funzioni, la principale delle quali è quella di favorire l’assorbimento di calcio e fosforo da parte dell’intestino, rendendolo così disponibile come
substrato per il processo di mineralizzazione ossea; promuove anche il riassorbimento del calcio nei tubuli renali, stimola gli osteoblasti a produrre più fosfatasi alcalina e osteocalcina e meno collagene (favorendo così la
formazione dell’osso), inibisce la secrezione del paratormone; svolge inoltre funzioni immunomodulatorie (stimolando le cellule mononucleari a differenziarsi in macrofagi), antiangiogenetiche ed antiproliverative.

Fattori che influenzano i livelli di vitamina D sono l’età, il colore della pelle, la latitudine, l’eventuale presenza di malassorbimento (malattia di Crohn, fibrosi cistica, celiachia), cause iatrogene (uso di fenobarbital, fenitoina,
carbamazepina, rifampicina), nefropatie (dal momento che il rene è sede dell’idrossilazione che rende la vitamina D biologicamente attiva), e l’obesità. La carenza di vitamina D determina una patologia un tempo nota nei bambini, il rachitismo, mentre nell’adulto la manifestazione clinica è l’osteomalacia. Le manifestazioni cliniche della carenza di vitamina D sono hanno una prevalenza piuttosto limitata nella popolazione generale, mentre molto più elevata è la prevalenza dell’insufficienza di vitamina (circa il 50% in adulto giovani e bambini, sia negli studi americani che in quelli europei). Diversi studi epidemiologici mostrano una associazione tra livelli insufficienti di questa vitamina e patologie quali il cancro, il diabete, l’ipertensione, la sclerosi multipla, l’artrite reumatoide, allergie ed asma,
infezioni e disturbi psichiatrici.

Patologie associate a livelli insufficienti della vitamina.

Osteoporosi. Il rapporto di causa-effetto tra carenza di vitamina D ed osteoporosi (patologia che colpisce quasi il 70% delle donne che hanno superato i 70 anni) è noto da tempo; livelli insufficienti o carenti di vitamina D dovuti all’età ed alla scarsa esposizione alla luce solare determinano una soppressione dell’assorbimento del calcio a livello intestinale con conseguente bilancio negativo del calcio che a sua volta determina una riduzione della mineralizzazione e della densità ossea. Ma la supplementazione di vitamina D in soggetti anziani carenti è un
rimedio effcace nel contrastare l’osteoporosi? In uno studio di supplementazione effettuato utilizzando da 700 a 800 IU al giorno di vitamina con o senza presenza di calcio si osserva una riduzione del 26% di frattura dell’anca e del 23% di fratture non vertebrali rispetto al placebo. Uno studio francese durato 3 anni e controllato con placebo effettuato su 3270 donne anziane (età media 84 anni) che vivevano in case di cura (dove il deficit di vitamina D è particolarmente elevato) ha mostrato che la supplementazione di calcio (1200 mg al giorno) e vitamina D (800 IU al
giorno) può ridurre la probabilità di frattura dell’anca del 43% e quella di fratture non vertebrali generiche del 32%.
Al contrario uno studio tedesco su 2578 donne anziane sane trattate con calcio e supplementazione di vitamina D (400 UI al giorno) per un periodo di tre anni e mezzo non ha mostrato significative riduzioni del rischio di frattura all’anca. Nella coorte statunitense NHANES III (National Health and Nutrition Examination Survey ) è dimostrata l’associazione tra bassi livelli di vitamina D e densità ossea in donne e uomini di età superiore a 20 anni, mentre nella coorte WHI (Women’s Health Initiative, una coorte costituita da 161.808 donne statunitensi sane in postmenopausa)
una supplementazione per 9 anni di calcio e vitamina D contro placebo determina nelle un incremento della densità ossea dell’1,06% a livello dell’anca ma nessuna differenza statisticamente significativa nella densità ossea a livello spinale lombare e total body. Non è quindi possibile, secondo i dati riportati da questi studi, trarre conclusioni definitive circa il dosaggio di vitamina efficace per incrementare la densità ossea e ridurre il rischio di osteoporosi; se 400 UI al giorno sembrano inefficaci, quantità più elevate potrebbero essere efficaci, ma occorre prima comprendere se tale efficacia è data dalla vitamina D o dal calcio, spesso contemporaneamente presente negli integratori oggetto di studio e se gli elevati livelli di vitamina D nei soggetti con più elevata densità ossea è dovuto alla vitamina D o ad
un più elevato livello di attività fisica all’aperto.

Cadute, fratture e tono muscolare. La riduzione della forza muscolare ed i dolori muscoloscheletrici diffusi sono fattori noti per essere una delle principali cause di caduta nell’anziano con conseguente frattura dell’anca. Il dolore muscolare è stato trovato associato ad insufficienti livelli ed a carenza di vitamina D; è stato inoltre dimostrato che le cellule del muscolo striato scheletrico hanno il recettore per la vitamina D. Una meta-analisi di 12 RCT (studi randomizzati e controllati con placebo) ha dimostrato una riduzione del rischio di fratture non vertebrali solo per integrazioni superiori a 400 UI al giorno; un’altra meta-analisi di 8 RCT ha dimostrato una riduzione del rischio di cadute con integrazioni superiori a 700 UI al giorno. Questa serie di studi forniscono una evidenza che l’integrazione pari o superiore ad 800 UI al giorno riduce il rischio di cadute e fatture nell’anziano.

Rischio complessivo di mortalità. Nello studio prospettico NHANES III è stata osservata una riduzione del 45% del rischio di morte negli adulti di età superiore a 65 anni con livelli di vitamina D superiori a 40 ng/ml rispetto a quelli con valori inferiori a 10 ng/ml. A differenza di quanto osservato nello studio prospettico una meta-analisi di 18 RCT mostra come un dosaggio compreso tra 300 e 2000 UI al giorno di vitamina D abbassa il rischio complessivo di morte del 7%. La discrepanza tra questi due dati suggerisce cautela nella loro valutazione: l’osservazione tra i bassi livelli di vitamina D e mortalità complessiva potrebbe infatti riflettere semplicemente il fatto che persone che vanno incontro alla malattia o all’immobilità (che hanno quindi una più elevata probabilità di morte) tendono ad avere bassi livelli di
vitamina D, sia per una riduzione del tempo trascorso all’aperto sia per un inadeguato apporto alimentare. Inoltre chi utilizza un integratore vitaminico a base di vitamina D (ed è quindi incluso in uno studio osservazionale) è spesso un soggetto sano ed in buona salute mentre l’utilizzo tende a cessare quando il intevengono patologie gravi, invalidanti,
che richiedono ulteriori e più marcati interventi farmacologici, e che spesso si accompagnano ad un più elevato tasso di mortalità.

Ipertensione e rischio cardiovascolare. L’associazione tra incremento dei livelli di vitamina D ed abbassamento della pressione sanguigna è stata osservata in due studi osservazionali, uno su 148 donne anziane (riduzione della pressione sistolica del 9% con supplementazione di 800 UI) ed uno su soggetti ipertesi esposti a luce solare fino ad ottenere un incremento dei 180% dei livelli di vitamina con sui si è osservata una riduzione di 6 mmHg della pressione diastolica. In contrasto con i dati osservazionali, in altri studi prospettici di grandi dimensioni tale associazione non è stata osservata. La supplementazione di vitamina D può quindi contribuire alla riduzione della pressione e all’abbassamento del rischio cardiovascolare? I dati a riguardo sono incompleti e discrepanti; al contrario, recentemente sono state espresse preoccupazioni circa la possibilità che la vitamina D supplementata possa accelerare la malattia vascolare responsabile del CVR: in uno studio su una popolazione di afro americani affetti da diabete di tipo 2 i livelli di vitamina D correlavano con un incremento di placche calcificate nell’aorta e nelle carotidi (ma non delle coronarie).

Diabete mellito. Una forte associazione negativa è da tempo nota tra l’esposizione alla luce solare (latitudine) e rischio di diabete di tipo 1. Anche meta-analisi di studi osservazionali hanno stabilito che la supplementazione di vitamina D determina una riduzione del rischio di diabete 1 ma spesso gli studi non contengono informazioni sul
dosaggio di vitamina nell’integratore ed inoltre sono stati condotti senza randomizzare le famiglie, per cui è possible che le caratteristiche delle famiglie che hanno fornito la supplementazione ai propri figli hanno contribuito alla diminuzione del rischio di diabete nei bambini. Per quanto riguarda il diabete di tipo 2 nella coorte NHANES III è stata osservata una associazione inversa tra livelli di vitamina D e glicemia in soggetti che utilizzavano integratori contenenti la vitamina, ma resta tuttavia difficile separare gli effetti dovuti alla vitamina D da quelli dovuti al calcio
dal momento che gli integratori utilizzati li contenevano entrambi. Il diabete di tipo 2 è una patologia fortemente influenzata dall’indice di massa corporea, come è noto da tempo: l’obesitò, d’altra parte, è uno dei fattori in grado di determinare un abbassamento dei livelli di vitamina D; pertanto, l’associazione inversa tra diabete di tipo 2 e livelli sierici di vitamina D andrebbe indagata più dettagliatamente, al fine di comprendere se tale associazione possa essere aggiustata per BMI e cioè se l’associazione sia quindi mediata dal BMI che risulti quindi in ultima analisi la causa primaria di entrambe le condizioni (iperglicemia e ipovitaminosi D).

Cancro. Recettori la vitamina D sono stati trovati in diversi tipi cellulari; in vitro tali recettori possono indurre differenziazione terminale, inibire la proliferazione, l’invasività, l’angiogenesi, il potenziale metastatico. Di fatto, in vitro la vitamina D è uno dei più potenti ormoni in grado di regolare la crescita cellulare. Anche studi in vivo su modelli animali di cancro del polmone, del colon, dei reni, della mammella e della prostata la vitamina D hanno evidenziato l’efficacia della vitamina D nel contrastare il processo metastatico. Per quanto riguarda gli studi sull’uomo i dati sono contrastanti; in una meta-analisi di studi caso-controllo di soggetti con e senza cancro del colon si è osservato che per ogni incremento di 20 ng/ml di vitamina D il rischio di cancro viene ridotto del 40%. In un trial clinico durato 4 anni su donne (post menopausa) si è evidenziato che la supplementazione con 1100 UI di vitamina D più 1500 mg di calcio al giorno riduce il rischio sostanzialmente per tutti i tipi di tumore. Per quanto
riguarda il cancro della mammella una meta-analisi di 7 studi osservazionali riporta un più basso rischio nelle donne con più elevati livelli di vitamina D mentre il trial WHI (8 anni, 400 UI al giorno di vitamina D) non mostra associazioni. Tuttavia è necessario ricordare che l’obesità rappresenta un fattore di rischio per il cancro della mammella oltre che per quello del colon e che quindi questo dato antropometrico può rappresentare un fattore di confusione nello stabilire l’associazione tra bassi livelli di vitamina D e cancro; aggiustando i dati dell’indice di massa corporea ed attività fisica i livelli sierici di vitamina D non risultano ad esempio associati a rischio di cancro della mammella negli studi osservazionali sopra citati che prima riportavano associazione positiva. In una metaanalisi
di studi osservazionali non sono state osservate associazioni tra livelli sierici di vitamina D e cancro della prostata e della mammella, mentre una blanda associazione è stata riscontrata con il cancro colorettale. Nessuna
associazione statisticamente significativa è stata trovata per i tumori dello stomaco, esofago, endometrio, ovaio, reni, per il linfoma non-Hodgkin e per il cancro del pancreas, per il quale è stata invece osservata un’associazione positiva con livelli elevati di vitamina D.

Allergia, asma e malattie autoimmuni. Sulla base di osservazioni in vitro è stato supposto un ruolo di questa vitamina nell’eziopatogenesi di disturbi immunitari frequenti nella popolazione, come allergia, asma, sclerosi multipla ed artrite reumatoide. Per quanto riguarda l’artrite reumatoide non vi sono al momento dati sufficienti. Uno studio dimostra invece che bassi livelli di vitamina D si associano ad elevate conte di eosinofili ed alti livelli di IgE così come all’uso di farmaci antinffiammatori e al ricorso al ricovero ospedaliero per asma e condizioni ad essa correlate. Tali
associazioni possono però essere giustificate anche dal fatto che bambini con allergie ed asma tendono a passare più tempo al chiuso che all’aperto. Sono stati osservati anche incrementi del rischio di disturbi respiratori a 3 e 5 anni i bambini nati da madri con bassi livelli di vitamina D durante la gravidanza, mentre altri studi mostrano al contrario che alti livelli di vitamina D durante la gravidanza si associano ad eczemi a 9 mesi nella progenie ed asma a 9 anni. La supplementazione di vitamina D nell’infanzia è stata associata ad un incremento della atopia e della rinite allergica
in età adulta. I dati circa gli effetti della vitamina D sull’asma e sull’allergia sono quindi da indagare più approfonditamente dal momento che gli studi disponibili offrono risultati contrastanti. Studi epidemiologici indicano come l’incidenza della sclerosi multipla aumenti con l’aumentare della latitudine, con la riduzione dei viaggi ultravioletti di tipo B, con l’esposizione alla luce solare e con bassi livelli di vitamina D. Uno studio casocontrollo ha dimostrato che il rischio di contrarre la sclerosi multipla è più basso nel gruppo con alti livelli di vitamina D. Tale associazione è stata tuttavia trovata solo in pazienti caucasici, non in quelli afroamericani. Alcuni studi suggeriscono un ruolo delle vitamina D nella prevenzione della sclerosi multipla, ma i dati non sono conclusivi.
È stato proposto anche il ruolo di questa vitamina nel trattamento, basati sull’osservazione (effettuata però sul modello animale) che la vitamina D è in grado di inibire alcune citochine inffiammatorie, ma anche in questo caso le evidenze sono al momento insufficienti.

Infezioni. La vitamina D è richiesta per l’espressione della catelicidina dei macrofagi, attivi nel processo di fagocitosi di batteri ed altri patogeni. Una meta-analisi di 7 studi prospettici ha rilevato una riduzione del rischio di tubercolosi attiva nei partecipanti con più alti livelli di vitamina D rispetto ai soggetti con bassi valori. In contrasto con questo dato, uno studio randomizzato e controllato su una popolazione africana non ha rilevato effetti benefici della vitamina con 100.000 UI di vitamina in monosomministrazione all’inizio, dopo 3 ed 8 mesi di trattamento della
tubercolosi ; in questo studio tuttavia il dosaggio utilizzato potrebbe essere stato inadeguato al fine di una efficace valutazione degli eventuali effetti della vitamina, dal momento che i livelli sierici di 25(OH)D non si sono modificati in corso di trattamento, quindi tale modalità di somministrazione non sembra aver condotto ad un effettivo
incremento della disponibilità di vitamina nei soggetti studiati. Nella coorte NHANES III soggetti con bassa (<10 ng/ml) vitamina D sembrano contrarre più frequentemente infezioni del tratto respiratorio superiore rispetto a
soggetti con livelli più alti, indipendentemente dalla stagione dell’anno. Uno studio caso-controllo riporta infine livelli carenti di vitamina D nei bambini ospedalizzati per bronchiolite o infezioni respiratorie pneumococciche.

Disturbi psichiatrici. In una coorte finlandese di bambini supplementati con vitamina D nel primo anno di vita è stata riportato un più basso rischio di sviluppare schizofrenia; alcuni aspetti di questo report non sono del tutto chiari, come ad esempio il fatto che l’associazione è evidente solo nei maschi e che l’associazione resta a prescindere dal grado di aderenza della famiglia alla posologia di somministrazione dell’integratore.

Conclusioni.

Recenti studi, sia retrospettivi che prospettici, hanno stabilito un’associazione inversa tra livelli di vitamina D ed alcune importanti patologie (cancro, diabete, ipertensione, sclerosi multipla): un’associazione tuttavia non è sufficiente per provare un nesso di causa-effetto. In alcuni casi l’associazione è documentata da studi solidi e non contrastanti (è il caso del rischio di caduta e di frattura nell’anziano); per altre delle patologie sopra elencate i dati disponibili in letteratura scientifica sono contrastanti; in altri casi ancora sono state osservate anche associazioni positive vitamina-malattia.

Un’osservazione che sembra molto rilevante è quella secondo cui il tessuto adiposo è in grado di sequestrare la vitamina D, influenzandone i livelli anche in soggetti con corretto intake alimentare e corretta esposizione; dal
momento che l’obesità è una condizione ad elevato tasso di prevalenza nelle popolazioni occidentali ed in particolar modo in quelle per le quali si registrano maggiormente livelli deficitari di vitamina D, non sarebbe del tutto scorretto ipotizzare che molte delle associazioni trovate tra livelli carenti di vitamina D e patologie possano essere in realtà associazioni tra obesità e malattie, in un contesto nel quale la carenza di vitamina D sarebbe una conseguenza ulteriore dell’obesità, oppure in un contesto in cui la carenza di vitamina D svolge il suo ruolo patogenetico ma la causa primaria della carenza vitaminica sia l’eccesso di adoposità. La quasi totalità delle patologie associate a deficit di vitamina D sono infatti già note per essere fortemente associate ad obesità, inclusi il cancro, l’ipertensione, il
diabete di tipo 2, il rischio cardiovascolare e la mortalità complessiva. Se confermate, entrambe queste ipotesi suggerirebbero che un’efficace rimedio di primo livello per contrastare livelli insufficienti di vitamina D nel soggetto obeso potrebbe essere rappresentato dalla un intervento mirato di riduzione della massa grassa (soprattutto quella sottocutanea) in un contesto di incremento dei livelli di attività fisica all’aperto.

Inoltre sarebbe auspicabile una riflessione accurata circa l’opportunità di supplementare la vitamina D in soggetti obesi carenti; dal momento che alcuni studi mostrano, pur limitatamente alla popolazione afroamericana, un incremento della calcificazione delle placche aortiche e carotidee nei soggetti che ricevono supplementazione, visto l’incremento del rischio cardiovascolare al quale sono esposti i soggetti obesi, una carenza vitaminica in tali soggetti dovrebbe essere primariamente trattata con la correzione del peso (con conseguente riduzione della massa grassa)
piuttosto che con l’integrazione (che potrebbe quindi rappresentare un fattore di rischio cardiovascolare concomitante).

In conclusione, quindi, sulla base dei dati attualmente disponibili, il dosaggio della vitamina D è appropriato nei soggetti per i quali si sospetta la patologia collegata al deficit (rachitismo o osteomalacia), oltre che ai soggetti (adulti o bambini) con dolore osseo, elevati livelli di fosfatasi alcalina, elevati livelli di paratormone, bassi livelli di calcio o fosforo. Per quanto riguarda invece l’integrazione sembra prudente limitarne il ricorso (con dosaggi compresi tra 800 e 2000 UI al giorno) negli anziani sopra i 60 anni al solo fine di ridurre il rischio di caduta e quello di frattura, entrambi rischi per i quali i dati di associazione sembrano ad oggi solidi.

Bibliografia:
Buonsanti G. La vitamina D: da fattore antirachitico ad indicatore dello stato di salute generale. Minerva Med. 2011;102(321-331)